Nutriti dalla mano e custoditi nel cuore del Buon Pastore – IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO C) – Lectio divina

Nutriti dalla mano e custoditi nel cuore del Buon Pastore – IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO C) – Lectio divina

6 Maggio 2025 0 Di Pasquale Giordano

IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO C) – Lectio divina
At 13,14.43-52 Sal 99 Ap 7,9.14-17

O Dio, fonte della gioia e della pace,
che hai affidato al potere regale del tuo Figlio
le sorti degli uomini e dei popoli,
sostienici con la forza del tuo Spirito,
perché non ci separiamo mai dal nostro pastore
che ci guida alle sorgenti della vita.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.

Dagli Atti degli Apostoli At 13,14.43-52
Ecco, noi ci rivolgiamo ai pagani.

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero.
Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio.
Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”».
Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

Chi rimane fedele a Dio vede trasformarsi la sterilità dei fallimenti in fecondità di servizio d’amore
Il primo annuncio di Paolo e Barnaba ad Antiochia di Pisìdia suscita grande curiosità tanto da richiamare una folla considerevole il sabato successivo. Questo successo suscita la gelosia di chi considera la Parola di Dio un fatto di “esperti” e cerca di proteggerla da interpretazioni che secondo loro ne deturperebbero la purezza. La cattiva fede nel trattare le cose di Dio emerge quando, con la scusa di difendere l’ortodossia, si è violenti, aggressivi, minacciosi contro i fratelli. Dietro l’apparente zelo si nasconde una profonda arroganza che genera violenza. Tuttavia il rifiuto di alcuni giudei autorevoli permette ai due evangelizzatori di adempiere la scrittura del profeta Isaia quando parla del servo sofferente che è chiamato ad essere luce non solo per Israele ma per anche per i pagani. Nelle crisi si vive la fedeltà a Dio e alla propria vocazione. Da una parte ci si scrolla di dosso come la polvere la pur normale rabbia e tristezza, e dall’altra si vive l’umiliazione come un atto di amore in unione all’evento della passione e risurrezione di Cristo. La tristezza si trasforma in gioia quando si vivono le difficoltà della vita, con il carico di mortificazioni, rimanendo in sintonia con Dio che rende fecondo il servizio d’amore proprio attraverso le esperienze di sterilità o di aborto di progetti all’inizio condivisi. Da questa pagina degli Atti degli Apostoli giunge una parola di incoraggiamento a tutti quelli che sentono la ferita di un fallimento: chi rimane fedele a Dio e poggia il suo cuore sulla salda roccia del suo amore vedrà rifiorire dentro di sé la carità verso coloro che sono origine di pianto e desolazione.

Salmo responsoriale Sal 99
Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida.

Acclamate il Signore, voi tutti della terra,
servite il Signore nella gioia,
presentatevi a lui con esultanza.

Riconoscete che solo il Signore è Dio:
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.

Perché buono è il Signore,
il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo Ap 7,9.14-17
L’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.

Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Non avranno più fame né avranno più sete,
non li colpirà il sole né arsura alcuna,
perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il loro pastore
e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».

L’Esodo della salvezza
Il Libro dell’Apocalisse è il libro profetico del Nuovo Testamento diverso da quelli dell’Antico perché tra il primo e i secondi c’è l’evento della Pasqua in cui Gesù Cristo, l’Agnello di Dio, con il sacrificio della sua vita ha riscattato tutti gli uomini dalla schiavitù del peccato che porta alla morte. L’apostolo Giovanni è destinatario della rivelazione della storia della Chiesa, il Popolo d’Israele della nuova Alleanza, con la quale si vuole consolare tutti coloro che sono atterriti dalle ingiustizie e dalle persecuzioni causate dall’Accusatore che vorrebbe vanificare l’opera salvifica di Cristo separando gli uomini da Dio con le armi del terrore. Il Diavolo è il terrorista per eccellenza contro cui si erge la mite forza dell’Amore. La tribolazione sembra evocata al v. 16 dalle quattro realtà da cui sono liberati: la fame, la sete, il sole cocente e l’arsura, elementi che colpiscono i poveri fra il popolo: i ricchi infatti non hanno né fame né sete e viaggiano protetti dai dardi del sole. Questi innumerevoli salvati erano come pecore allo sbando, senza pastore. Non erano perfetti: hanno infatti delle vesti da lavare nel sangue dell’agnello. Questo è un elemento fondamentale: i salvati non sono i giusti, ma, per dirla con san Paolo, i giustificati. Sono arrivati davanti al trono e all’Agnello impolverati, ma hanno tenuto duro nella prova, come indica la palma che ora festosamente tengono in mano. La salvezza si qualifica in rapporto alla tribolazione, come una liberazione dalla stessa. Il sangue dell’Agnello è il sigillo posto sulla fronte per indicare che chi lo porta è stato riscattato dalla schiavitù della morte ed è una persona libera perché appartiene al Dio vivente. Il male non può rivendicare nessun potere e alcuna autorità su di lui. Il richiamo al sangue dell’agnello pasquale sulle tende degli Israeliti, nella quale non doveva entrare la morte, fa dell’Esodo la chiave di lettura della storia della salvezza che è compiuta da Gesù Cristo ed è in atto nell’oggi. La salvezza ha raggiunto questa moltitudine grazie alla capacità del sangue dell’Agnello di rendere bianca la loro veste, secondo il beneplacito di Dio, simboleggiato dal trono, segno della sua presenza agente nella storia. Quindi la liturgia non celebra la loro grandezza, ma la grandezza della misericordia di Dio, che tutto opera. A Dio solo dunque spettano “Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza” (7,12). Dunque la loro stessa fedeltà nella tribolazione è opera sua: Dio si è glorificato in essi. È un vangelo di speranza che attinge luce né dal passato, né dal futuro, ma dal presente nel quale si rinnova continuamente il sacrificio di Cristo grazie al quale la distruzione e la morte non ha l’ultima parola e deve fermare il suo processo corruttivo davanti alla forza dell’amore di Dio. I salvati non sono un piccolo gruppo di privilegiati in un mondo di dannati, ma sono una moltitudine infinita grande quanto l’umanità perché Cristo è morto per tutti gli uomini e non solo per una parte di essi. Per quanto i cristiani possano sentirsi una minoranza, per giunta minacciata, essi devono poggiare la loro speranza di vita solo nel Signore. Unendosi a Lui nella sofferenza della tribolazione, l’attraverseranno trovando la forza di lasciarsi alle spalle odio, rancore, tristezza, paura che uccide, per approdare alla riva della vita nuova in cui godere della gioia della comunione.

Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 10,27-30
Alle mie pecore io do la vita eterna.

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Lectio divina

Contesto
Nel Vangelo di Giovanni al cap. 10 sono riportati degli insegnamenti di Gesù che vertono attorno alla figura del pastore sviluppati in tre diversi interventi (10, 1-6. 7-18.25-30). Il contesto nel quale inizia il discorso di Gesù, che verte attorno alla metafora del pastore e del gregge, è la disputa con i Giudei all’indomani della guarigione del cieco nato e la sua «scomunica» dopo aver reso testimonianza a Gesù. Si creano due schieramenti: da una parte chi lo accusa e fomenta la gente contro di lui accusandolo di essere un impostore, e dall’altra chi invece riconosce, dai segni compiuti da Gesù, che egli viene da Dio. Nel primo insegnamento viene posto un paragone tra il «pastore delle pecore» che entra dalla porta del recinto, e il ladro/brigante che invece scavalca. La differenza tra i due personaggi evocati nella similitudine sta nella bontà delicata e rispettosa. Il pastore chiede permesso al guardiano così come Dio interloquisce con noi usando il massimo rispetto della nostra libertà. Nel Libro dell’Apocalisse Gesù dice di essere come colui che sta alla porta e bussa. Chi gli apre la porta lo accoglierà in sé e potrà cenare con Lui (cf. Ap 3, 20). La parola di Dio è innanzitutto un invito ad aprirgli il cuore. L’umiltà e la delicatezza rispettosa con cui Gesù si rapporta con gli uomini è il segno di riconoscimento dell’autenticità dei suoi sentimenti nei loro confronti. La sua è una voce familiare che suscita fiducia e attiva la determinazione a seguirlo. Al contrario di ciò che accade con la voce dell’estraneo che invece incute paura e che fa scattare una reazione di fuga (cf. Gv 10, 1-6).
Il secondo insegnamento è la spiegazione alla parabola il cui significato sembra sfuggire ai suoi interlocutori. Viene istituito un doppio confronto tra la porta/il pastore e il ladro/mercenario. Il ladro viene per rubare, uccidere e distruggere e il mercenario, che non gli importa delle pecore, scappa davanti al lupo rendendole facile preda dei lupi. Al contrario, il pastore è colui che si prende cura delle pecore conducendole al pascolo e riconducendole nell’ovile dove sono protette. Gesù si rivela come il Buon/Bel Pastore perché dà la propria vita per le pecore per nutrirle e difenderle. I segni che Gesù compie rendono manifesto l’amore del Padre che si prende cura degli uomini con i quali s’instaura il medesimo rapporto di amore familiare che lega il Padre e il Figlio suo Gesù. Sant’Agostino indica nel Padre l’Amante, nel Figlio l’Amato e nello Spirito Santo l’Amore. La vita di cui parla Gesù è propriamente l’Amore che unisce il Padre e il Figlio e, al contempo, il dono che fa Gesù a chi crede in lui per coinvolgerlo nella familiarità divina.
Sullo sfondo del terzo insegnamento di Gesù (Gv 10, 25-30) c’è la festa della Dedicazione del Tempio di Gerusalemme. Dopo la sua profanazione ad opera di Lisia, legato del re Antioco IV Epifane, nel II secolo a. C., i Maccabei organizzarono la ricostruzione e la nuova dedicazione del tempio. Per gli ebrei quello era il luogo della permanente presenza di Dio in mezzo al suo popolo e spazio d’incontro con il Signore nel segno dei sacrifici. Gesù annuncia che è lui la vera e definitiva via per incontrare Dio ed entrare in comunione con lui. La tradizione profetica, in maniera particolare Ezechiele, usa la metafora pastorale del pastore per indicare le guide del popolo, visualizzato simbolicamente nell’immagine del gregge. La metafora attinge direttamente alla tradizione d’Israele delle sue origini pastorali. La fase storica nella quale Israele è un popolo nomade a economia prevalentemente pastorale, il pastore assume il valore di guida, sostegno e protezione. I capi, responsabili del popolo, sono chiamati pastori, ma quando essi tradiscono il loro mandato, Dio stesso s’incarica di guidare il suo popolo e di inviare pastori in sintonia con il suo cuore, cioè con i suoi progetti di pace (Ez 34,1s.; Ger 23,1s.). Gesù applica a sé le profezie che annunciano un intervento diretto di Dio per prendersi cura del suo gregge sbandato a causa del tradimento dei “falsi” pastori. Gesù afferma di essere il Buon/Bel Pastore e i suoi discepoli sono quelli che chiama le «mie pecore».

Testo
Nei primi due insegnamenti Gesù ha offerto i criteri per riconoscere i pastori «secondo il cuore di Dio» e i falsi pastori, mercenari e briganti. Nel terzo insegnamento l’accento è posto sulla figura del gregge, ovvero sui discepoli. La relazione che si instaura tra Gesù-pastore e i discepoli-gregge corre sul filo dell’ascolto. Nei versetti precedenti a quelli che compongono la pericope liturgica, alcuni giudei chiedono che Gesù dica espressamente se è il Cristo. Egli risponde che lo ha affermato già apertamente ma essi, rifiutandosi di credere non lo ascoltano perché non sono del suo gregge. La caratteristica di appartenere al gregge di Gesù è proprio quella di ascoltarlo e seguirlo. Tra l’ascolto e la sequela delle pecore c’è l’esperienza della conoscenza del pastore, sinonimo di amore e premura per il gregge. La voce del pastore comunica il sentimento profondo che unisce Gesù ai suoi discepoli. Il maestro vuole il bene dei suoi discepoli, non esige nulla, al contrario egli è disposto a dare tutto, tutto sé stesso, per la loro vita. L’intimità che il pastore ricerca e dona alle pecore rende credibile e attraente la sua voce, tale che esse lo seguono in piena fiducia. L’amore di Gesù tocca non solo le orecchie ma il cuore di chi lo incontra e si lascia attrarre nel cammino della vita vera. La voce di Gesù comunica la misericordia di Dio. Solo l’amore di Dio appaga pienamente il desiderio dell’uomo, che così si lascia condurre. Nell’ascolto si compie la vocazione dell’uomo che è fatto per aprirsi all’altro, per entrare in relazione e in essa trovare la sua pienezza. Ogni persona raggiunge la sua propria dignità e libertà quando si apre all’ascolto di Dio. Ascoltare non significa solo udire, ma accogliere con intelligenza, aderire nel cuore e mettere in pratica. La Lettera di Giacomo invita a non essere ascoltatori smemorati come chi passa davanti allo specchio per poi dimenticare la sua immagine subito dopo. Bisogna essere ascoltatori che mettono in pratica la parola di Gesù in modo da comprenderne il senso, ovvero fare esperienza d’intima comunione con Dio (Gc 1,19-25). È esperienza di vocazione quella in cui si riconosce la voce di chi ti ama e perciò ti chiama per nome. La voce dell’amore comunica la verità fondamentale della vita: chi mi ama mi conosce e al tempo stesso mi rende nota la mia vocazione, la mia identità, il senso della mia esistenza e la mia missione.
L’obbedienza rivela la fecondità e la vitalità della relazione personale che unisce Dio e la sua creatura umana, che Gesù chiama “vita eterna”. Solo Gesù può darla perché solo lui può introdurci e farci partecipi della sua relazione filiale col Padre, fonte della vita. Gesù è concorde con noi perché ci offre il suo cuore, il suo rapporto filiale col Padre celeste. Chi rimane unito a Gesù aderendo alla sua vita, accoglie in sé lo Spirito Santo, la stessa forza vitale che spinge Gesù ad amare il Padre e i suoi fratelli fino a dare la propria vita.
Di fronte alle intemperie della fede e della vita possiamo confidare in una mano forte che ci protegge. Gesù, nelle cui mani il Padre ci ha affidato, ci custodisce perché nulla possa compromettere la nostra relazione fiduciosa con Dio. La fedeltà di Dio si traduce nella custodia e promozione alla vita di tutti coloro che si rifugiano in Lui. Davanti alla fedeltà di Dio non c’è pericolo che le forze del male possano avere il sopravvento definitivo. Nessuno con la violenza può sottrarre la creatura dall’amore di Dio. Nessuno potrà mai separarci dall’amore di Dio! (cf Rm 8, 35-37) Chi sta nelle mani di Cristo, perché a lui vuole appartenere, sa che ogni tentativo violento cade inefficace difronte al più robusto amore del Pastore che custodisce quanto ha ricevuto dal Padre. Gesù consegna le sue pecore nelle mani del Padre, Colui che gliele ha date e che è «più grande di tutti» tanto che nessuna potenza gli è superiore tanto da potergli sottrarre quello che gli appartiene. La sicurezza delle creature risiede nella unione che abbraccia Gesù e il Padre in un unico legame tanto da essere “uno”. In tale unità-comunione trova spazio ogni uomo che si lascia inglobare in questo abbraccio d’amore. Lì trova sicurezza, vita, libertà.

Meditatio
Nutriti dalla mano e custoditi nel cuore del Buon Pastore

Il vangelo di domenica scorsa si concludeva con l’affidamento a Simon Pietro di pascere il gregge di Cristo. La missione dell’apostolo consiste nel prendersi cura della Chiesa con gli stessi sentimenti di Gesù che il libro dell’Apocalisse presenta come l’Agnello – Pastore. Il Risorto custodisce e guida la Chiesa mediante l’azione pastorale di coloro che, da «sue pecore» che ascoltano la voce del Buon Pastore e lo seguono, diventano a loro volta pastori dei loro fratelli. Gesù non nasconde ai suoi discepoli il pericolo che viene dai ladri e dai briganti, per i quali ciò che conta è fare bottino, o dai mercenari, i quali non curano altro interesse che il proprio. Il dramma sarebbe essere vittime della logica dell’avidità egoistica che trasforma la docilità delle pecore in aggressività dei lupi e la mitezza degli agnelli nella violenza dei rapaci. Non l’intuito ma l’ascolto della Parola di Dio aiuta a cogliere la presenza di Dio e l’opportunità che ci viene offerta di crescere nella libertà e nella responsabilità. Questo avviene nelle crisi quando, da una parte sperimentiamo quanto sia facile essere ingannati dalle voci suadenti di coloro che vorrebbero servirsi di noi per i loro interessi, e dall’altro possiamo scoprire la nostra vocazione di essere a servizio di tutti quelli verso i quali il Signore ci invia o che ci dona affinché possiamo essere per loro custodi e segno di speranza. L’esperienza di Paolo e Barnaba è significativa in questo senso. Proprio quando subiscono gli affronti più duri dalle persone che si ritenevano più vicine e affini, essi comprendono di essere a servizio di un progetto molto più ampio dell’orizzonte che essi avevano immaginato. I ladri e i briganti si presentano in vesti di pastori, difensori della «loro» verità. Tuttavia, del Pastore hanno solo l’apparenza ma non i veri sentimenti perché essi non parlano al cuore delle persone ma alla pancia della folla. Fanno leva sulla diffidenza, alimentando dissidi e divisioni, e promettono un mondo che è solo il prodotto della fantasia malata. Essi chiedono subito di dare loro qualcosa in cambio della realizzazione della promessa. Gesù, invece, il vero Pastore, prima di fare promesse seducenti, lui stesso realizza la promessa del Padre e dona la vita. L’amorevolezza del Pastore, che conosce le sue pecore perché le ha a cuore, è percepibile dal tono delicato della sua parola con la quale chiede permesso e dalla mitezza con cui affronta la croce. Bussando con rispetto alla porta del nostro cuore resta in paziente e fiduciosa attesa di essere accolto e ascoltato. Ascoltare, dunque, significa aprire il cuore a Dio per accoglierlo e lasciarsi conoscere da Lui come, spalancando la finestra di una stanza permettiamo alla luce di entrare e all’aria fresca di rigenerare l’ambiente. Gesù sulla croce ha steso le braccia per consegnarsi come dono nelle nostre mani. Nell’eucaristia ascoltiamo la voce di Dio; accogliendolo nelle nostre mani e dentro di noi, lo conosciamo veramente come nostro Signore. Dio viene a noi, non per prendere, ma per donare la vita. Egli ci dona lo Spirito Santo! È la mano di Dio che prende la nostra come quella di un genitore che guida e accompagna il suo figliolo sulla via della vita. La mano può chiudersi a pugno e colpire per distruggere e uccidere oppure afferrare e strappare per rubare. Dio si consegna nelle nostre mani per amore perché impariamo da Lui a tenerle sempre aperte per accogliere i fratelli come dono suo, nello stesso modo con il quale Gesù ci considera dono ricevuto dalle mani del Padre. Se le mani si chiudono lo fanno solo per stringere quelle dei fratelli più deboli per infondere coraggio, trasmettere sicurezza e comunicare loro la forza necessaria affinché si creino legami di autentica comunione fraterna.

Oratio
Signore Gesù,
mite Agnello immolato per noi,
Tu sei il Pastore secondo il cuore di Dio.
Ti ringraziamo perché ci ami
per quello che siamo,
gregge tante volte disperso e confuso,
frastornato dagli scandali e disorientato
dalle voci illusorie dei falsi pastori.
Abbi pietà di noi e aiutaci donandoci fratelli
la cui voce sia eco della tua Parola e
con le loro opere siano strumento della tua immensa carità.
Fa che le prove della vita, con l’aiuto del tuo Spirito,
ci educhino a saper discernere la tua volontà,
a sperare nelle tue promesse
e ad essere docili ai tuoi comandi.
Assistiti dalla Sapienza che abita tra noi,
la nostra coscienza, purificata dal sangue dell’Agnello,
possa uscire temprata dalle crisi
per essere più comprensivi, pazienti
e amorevoli con i nostri fratelli.
Quando le nostre braccia sono fiaccate dalla stanchezza
Abbracciaci teneramente, stringici amorevolmente e sollevaci
per trovare in Te la forza di camminare insieme
sui sentieri della storia prendendoci per mano.
Donaci la gioia di appartenerti
ed essere a servizio della tua Chiesa
con cuore libero e grato.
Amen.