Il pericolo di essere credente «ateo» – Sabato della XI settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari) – San Luigi Gonzaga

Il pericolo di essere credente «ateo» – Sabato della XI settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari) – San Luigi Gonzaga

20 Giugno 2025 0 Di Pasquale Giordano

Sabato della XI settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari) – San Luigi Gonzaga
2Cor 12,1-10 Sal 33 Mt 6,24-34: Non preoccupatevi del domani.

O Dio, fonte di ogni dono del cielo,
che in san Luigi [Gonzaga] hai unito in modo mirabile
l’innocenza della vita e la penitenza,
per i suoi meriti e la sua intercessione
fa’ che, se non l’abbiamo imitato nell’innocenza,
lo seguiamo sulla via della penitenza evangelica.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 2Cor 12,1-10
Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze.

Fratelli, se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare. Di lui io mi vanterò!
Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato: direi solo la verità. Ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi più di quello che vede o sente da me e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni.
Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

La sofferenza per Cristo è il sigillo di autenticità della profezia
Anche Paolo, apostolo e profeta di Cristo, ha subito molte persecuzioni da parte dei pagani ma soprattutto da coloro che erano Israeliti come lui. L’esperienza della sofferenza era letta dai suoi detrattori, che ragionavano secondo la logica della giustizia retributiva, come il segno della disapprovazione divina e la punizione adatta per il falso profeta. D’altronde, lo stesso Saulo, prima di incontrare il Crocifisso risorto considerava Gesù un malfattore e proprio a motivo della sua morte ignominiosa. Dunque, il persecutore dei cristiani diventa un cristiano perseguitato da coloro che invece avrebbero dovuto riconoscere nella sua azione missionaria la mano di Dio. Paolo è un vero profeta perché la parola della Croce, attraverso cui Dio ha rivelato il suo amore a tutti gli uomini, giusti e ingiusti, cattivi e buoni, Giudei e pagani, si rivela nella sua carne ferita dalle umiliazioni e ingiustizie. Esse non sono lo stigma del falso profeta ma il sigillo di autenticità della sua missione apostolica. Egli è consapevole che la rivelazione è il processo attraverso il quale Dio conforma il profeta a suo Figlio Gesù. La sofferenza, lungi dall’essere la punizione di Dio per essersi autoproclamato suo profeta, ha una funzione pedagogica perché permette all’apostolo di rimanere davanti al Signore con la postura del servo obbediente che viene elevato alla dignità di figlio. Solo questa dimensione filiale, che è dono di Dio, determina l’ottica per la quale tutti gli altri sono fratelli con cui condividere la gioia della fede e non concorrenti ai quali strappare il trofeo della primazia.

Dal Vangelo secondo Matteo Mt 6,24-34
Non preoccupatevi del domani.

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.
Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?
E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?
Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.
Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.
Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».

Il pericolo di essere credente «ateo»
Arrivano momenti in cui bisogna fare delle scelte e il compromesso non è tra le possibilità perché significa rimanere in quella zona di neutralità simile alla disgustosa tiepidezza stigmatizzata dal libro dell’Apocalisse («non sei né freddo né caldo, siccome sei tiepido, cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca»). C’è una sottile forma d’ipocrisia che si manifesta nell’adattarsi come i camaleonti alle situazioni senza avere una propria personalità. Se si agisce per convenienza a partire da ciò che piace saremo, a seconda delle situazioni, tutto e il contrario di tutto. C’è chi pretende di poter fare tutto e di esserci in ogni situazione per rendere culto al proprio io, anche se lo chiama servizio. Quando ci si trova a dover decidere se fare una scelta che denota l’appartenenza a Dio e alla Comunità o quella che realizza qualcosa di piacevole e gratificante, si sceglie la seconda se non c’è alle spalle un vero cammino di fede. Non si possono infatti servire contemporaneamente due padroni, Dio e l’«io». Se si ama Dio, sacrificando il proprio io facendone un dono al Cielo, si arriva ad amarsi veramente; al contrario se ci si illude di servire Dio incensando il proprio «io», si arriverà al conflitto d’interesse. Come ci accorgiamo di idolatrare il nostro «io»? Quando ci preoccupiamo della vita come se Dio non ci fosse o come se l’amicizia con Lui non fosse gratificante. Gesù ci invita a non affannarci a rincorrere le lucciole dell’ambizione personale, a riporre sicurezze in qualcosa di fragile, a ricercare la gioia in ciò che crea solo dipendenza. Abbiamo già ciò che ci è necessario per vivere perché ci viene donato, tuttavia il lavoro che ci spetta non è quello di creare dal nulla le cose, ma di coltivare e prenderci cura di quello che Dio stesso ci offre. Preoccupiamoci non delle cose, ma delle persone con le quali entriamo in relazione, sono esse infatti il dono più bello che la vita può offrirci.
Preghiamo
Signore Gesù, tu che hai offerto il tuo cuore indiviso al Padre per la vita di tutti noi, tuoi fratelli, donami lo sguardo sereno e fiducioso di chi, come Te, è libero dall’ansia dietro cui si nasconde il pericolo dell’ateismo pratico e del culto al proprio «io». Insegnami a mettermi al servizio del regno di Dio piuttosto che servirmi delle persone e delle cose per la soddisfazione del mio egoismo. Donami il gusto della gratitudine che riconosce già ora nei piccoli semi immersi nella vita quotidiana il frutto della gioia, festa della comunione dei Santi.