AMORE RICREATORE – VENERDI SANTO (PASSIONE DEL SIGNORE) – LECTIO DIVINA

AMORE RICREATORE – VENERDI SANTO (PASSIONE DEL SIGNORE) – LECTIO DIVINA

27 Marzo 2024 0 Di Pasquale Giordano

VENERDI SANTO (PASSIONE DEL SIGNORE) – LECTIO DIVINA

Is 52,13- 53,12   Sal 30   Eb 4,14-16; 5,7-9   Gv 18,1- 19,42: Passione del Signore.

O Dio, che nella passione di Cristo nostro Signore

ci hai liberati dalla morte,

eredità dell’antico peccato

trasmessa a tutto il genere umano,

rinnovaci a somiglianza del tuo Figlio;

e come abbiamo portato in noi,

per la nostra nascita,

l’immagine dell’uomo terreno,

così per l’azione del tuo Spirito

fa’ che portiamo l’immagine dell’uomo celeste.

Per Cristo nostro Signore.


Dal libro del profeta Isaìa Is 52,13- 53,12

Egli è stato trafitto per le nostre colpe. (Quarto canto del Servo del Signore)

Ecco, il mio servo avrà successo,

sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente.

Come molti si stupirono di lui

– tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto

e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –,

così si meraviglieranno di lui molte nazioni;

i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,

poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato

e comprenderanno ciò che mai avevano udito.

Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?

A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?

È cresciuto come un virgulto davanti a lui

e come una radice in terra arida.

Non ha apparenza né bellezza

per attirare i nostri sguardi,

non splendore per poterci piacere.

Disprezzato e reietto dagli uomini,

uomo dei dolori che ben conosce il patire,

come uno davanti al quale ci si copre la faccia;

era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,

si è addossato i nostri dolori;

e noi lo giudicavamo castigato,

percosso da Dio e umiliato.

Egli è stato trafitto per le nostre colpe,

schiacciato per le nostre iniquità.

Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;

per le sue piaghe noi siamo stati guariti.

Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,

ognuno di noi seguiva la sua strada;

il Signore fece ricadere su di lui

l’iniquità di noi tutti.

Maltrattato, si lasciò umiliare

e non aprì la sua bocca;

era come agnello condotto al macello,

come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,

e non aprì la sua bocca.

Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;

chi si affligge per la sua posterità?

Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,

per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.

Gli si diede sepoltura con gli empi,

con il ricco fu il suo tumulo,

sebbene non avesse commesso violenza

né vi fosse inganno nella sua bocca.

Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.

Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,

vedrà una discendenza, vivrà a lungo,

si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.

Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce

e si sazierà della sua conoscenza;

il giusto mio servo giustificherà molti,

egli si addosserà le loro iniquità.

Perciò io gli darò in premio le moltitudini,

dei potenti egli farà bottino,

perché ha spogliato se stesso fino alla morte

ed è stato annoverato fra gli empi,

mentre egli portava il peccato di molti

e intercedeva per i colpevoli.

La vera bellezza dell’amore di Dio

Il poema è unico nel suo genere, perché sembra essere una creazione letteraria nuova, diversa dai modelli orali comuni, sia nella forma e sia nel contenuto. Inquadrato all’interno di due pronunciamenti o oracoli divini in Is 52,13-15 e Is 53,11b-12, il corpo del racconto (Is 53,1-11ab) si presenta abbastanza omogeneo, con la presenza di un soggetto anonimo, ossia un noi o voce corale, ben distinto dai re e dai popoli pagani di Is 52,15, che racconta la storia del Servo, sottolineando l’iniziale ostilità e incomprensione nei suoi confronti, divenuta in seguito paradossale solidarietà. Il suo racconto si apre con una duplice domanda retorica, espressa in Is 53,1. Segue nei vv. 2-3 l’esposizione della condizione di grande disagio e disprezzo del Servo, cresciuto in una situazione di estrema aridità e in seguito disprezzato e reietto, senza possibilità di alcuna stima. Is 53,4, introdotto dalla particella ’akên (eppure), dà l’avvio al rovesciamento della situazione, con la chiara contrapposizione letteraria Lui-Noi: a noi sembrava…ma Lui si è addossato i nostri dolori; è stato trafitto per i nostri delitti; il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui. Con Is 53,8b si potrebbe supporre l’intervento di un terzo protagonista, forse il profeta stesso, che si caratterizza a questo punto come ulteriore voce all’interno del gruppo (Is 53,8c-11b), che conferma l’ingiusta umiliazione, sofferenza e morte del Servo fino alla sepoltura. Finalmente, in Is 53,11b-12 l’intervento di Dio conferma l’esaltazione del Servo e chiude il poema.

L’introduzione solenne ed elevata in Is 52,13 (hinnēh = guardate) rimanda all’oracolo di Is 42,1, dove il Servo è introdotto con la missione di portare la giustizia(diritto = mišpaṭ) alle nazioni. Qui l’attenzione è posta sul successo e sulla glorificazione del Servo (cfr. Is 49,3), descritti con quattro verbi al futuro, in una successiva progressione (avrà successo/diventerà luce; sarà onorato; sarà esaltato; sarà molto innalzato), tra cui spicca il primo dei quattro (yaśkîl = illuminerà), inserito tra hinnēh e ‘avdî, evidenziando forse una particolare funzione del Servo, espressa già all’inizio del poema, che è quella di svelare il senso di ciò che viene raccontato. Egli è la causa vera della conversione in primo luogo del noi, e quindi in seguito dei popoli e re. Tale cambiamento consiste esattamente in una svolta di lettura e di comprensione dell’evento, che ha visto vittima sofferente il Servo del Signore, finché questi non diventerà luce e rivelazione (cfr. Is 49,6). Segue, subito dopo, l’annuncio paradossale del grande dolore e sofferenza, in cui il Servo sprofonderà (v. 14), e nello stesso tempo del grande stupore e meraviglia da parte di popoli e re per la sua esaltazione (v. 15). In Is 53,1 entra in scena un altro soggetto, forse un resto di Israele, che fa una confessione raccontando la storia del Servo. La metafora del vedere sembra essere la chiave di lettura del poema, il quale racconta come la visione errata iniziale del noi si sia poi trasformata in visione retta e comprensione autentica grazie all’intervento del Servo. I salvati raccontando l’umiliazione e l’esaltazione del Servo del Signore, riconoscono che è a motivo della loro colpa che la sofferenza e il dolore si sono abbattuti sul Servo.

Il poema di Is 52,13-53,12 è un invito ad una retta visione e comprensione di una vicenda paradossale, che ha visto come protagonista il Servo per eccellenza del Signore. Il punto di partenza è stata una scorretta interpretazione e comprensione della suddetta vicenda: gli occhi di chi racconta erano incapaci di riconoscere ciò che poi sarebbe stato rivelato. La domanda retorica di Is 53,1, che apre il racconto del noi insiste proprio sul paradosso di tale rivelazione e illuminazione. Agli occhi del noi il Servo appariva senza aspetto né bellezza; la sua apparenza era indesiderata (Is 53,2). E anche le moltitudini faranno un’analoga esperienza di rivelazione e di comprensione, perché vedranno l’inverosimile e comprenderanno l’inaudito (Is 52,15), dal momento che in precedenza si erano meravigliate e stupite per l’apparenza disumana del Servo (Is 52,14). Il passaggio alla retta visione e comprensione dell’evento sembra costituire il cuore del poema: esso è affermato dal noi narrante e testimoniante (Is 53,4-7) e confermato dalla voce del profeta, che è parte integrante del gruppo confessante (Is 53,8-11a). La voce di Dio incornicia il racconto centrale, introducendolo all’inizio e confermandolo alla fine.

Salmo responsoriale Sal 30

Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito.

In te, Signore, mi sono rifugiato,

mai sarò deluso;

difendimi per la tua giustizia.

Alle tue mani affido il mio spirito;

tu mi hai riscattato, Signore, Dio fedele.

Sono il rifiuto dei miei nemici

e persino dei miei vicini,

il terrore dei miei conoscenti;

chi mi vede per strada mi sfugge.

Sono come un morto, lontano dal cuore;

sono come un coccio da gettare.

Ma io confido in te, Signore;

dico: «Tu sei il mio Dio,

i miei giorni sono nelle tue mani».

Liberami dalla mano dei miei nemici

e dai miei persecutori.

Sul tuo servo fa’ splendere il tuo volto,

salvami per la tua misericordia.

Siate forti, rendete saldo il vostro cuore,

voi tutti che sperate nel Signore.

Dalla lettera agli Ebrei Eb 4,14-16; 5,7-9

Cristo imparò l’obbedienza e divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono.

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.

Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.

[Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

Figliolanza e fraternità, obbedienza e solidarità

L’autore della Lettera agli Ebrei riconosce che la messianicità di Gesù consiste nel suo sacerdozio del quale sottolinea prima la solidarietà con gli uomini e poi l’obbedienza a Dio. La solidarietà e l’obbedienza sono le due facce dell’unico sacerdozio di Cristo. Viene instaurato un parallelismo tra il sommo sacerdozio ebraico e il pontificato di Gesù. Il Sommo Sacerdote ebraico aveva fondamentalmente la funzione di intercedere per i peccatori presso Dio al fine di ottenere il perdono dei peccati. Questo avveniva mediante dei sacrifici che il sommo sacerdote offriva per i peccati suoi e di tutto il popolo. La solidarietà del Sommo Sacerdote era basata sul fatto che era uomo e, dunque, peccatore. Il perdono lo chiedeva per sé e per i suoi fratelli. Anche Gesù è nostro fratello perché partecipa della debolezza umana e soprattutto della sofferenza subita ingiustamente.

Nessuno può auto proclamarsi sacerdote, ma questo ministero si esercita in virtù della chiamata di Dio, come era stato stabilito sin da Aronne. L’autorità del Sommo Sacerdote non lo colloca al di sopra degli altri ma a loro servizio. Il sacerdozio, quale servizio agli altri, è esercizio di fraternità. Come non ci si può autoproclamare Sommo Sacerdote, così non si scelgono i fratelli ma si accolgono come un dono da custodire nella stessa maniera con la quale si riceve l’autorità e la si esercita. Ogni autorità, che sia regale o sacerdotale, viene da Dio perché essa sia esercitata a vantaggio di tutti i fratelli. Gesù riceve la pienezza dell’autorità perché nella Pasqua di morte e di risurrezione ottiene la corona regale della vittoria sul peccato e sulla morte e l’investitura sacerdotale. Sulla croce Gesù non offre sacrifici ma sé stesso con preghiere e suppliche, tra grida e lacrime. Il Cristo non ha scelto di soffrire ma ha celebrato il suo sacrifico unendosi totalmente agli uomini peccatori e caricandosi anche del dolore innocente. Dall’altra parte per la sua piena obbedienza a Dio è stato risuscitato portando la liberazione a tutti gli uomini dal peccato e dalla morte.

La vicenda pasquale di Gesù, letta nell’ottica della fede, ci aiuta a comprendere che per essa possiamo crescere nella duplice direzione della maturità umana: essere figlio e fratello. L’ obbedienza a Dio, ovvero l’adesione alla Sua volontà, fatta con libertà e fiducia, s’intreccia con la solidarietà fraterna che può giungere a subire il martirio da innocente. Chi si affida a Dio usa gli strumenti della mitezza per lottare contro il male, il primo dei quali è la preghiera. Essa non è una formula magica segreta elaborata per perseguire fini personali. Si tratta invece del mondo con cui vivere l’intimità filiale col Padre e quella fraterna nei gesti di una solidarietà e compassione.

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 18,1- 19,42)
Passione del Signore.

  • Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Giovanni
  • Catturarono Gesù e lo legarono
    In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
  • Lo condussero prima da Anna
    Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno. Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».

Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote. Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro. E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono». Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.

Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento. Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto». Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?». Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?». Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.

  • Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono!
    Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono». Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?». Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
  • Il mio regno non è di questo mondo
    Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?». Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?».

E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.

  • Salve, re dei Giudei!
    Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi.

Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».

Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».

All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».

  • Via! Via! Crocifiggilo!
    Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà. Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare». Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.
  • Lo crocifissero e con lui altri due
    Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».
  • Si sono divisi tra loro le mie vesti
    I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte». E i soldati fecero così.
  • Ecco tuo figlio! Ecco tua madre!
    Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.
    Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.

(Qui si genuflette e di fa una breve pausa)

  • E subito ne uscì sangue e acqua
    Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
  • Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi
    Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.

LECTIO

L’ultimo respiro del Crocifisso è il primo vagito dell’Uomo nuovo

Il racconto della Passione secondo Giovanni è un dramma ma non è drammatico. Il quarto evangelista elimina dal suo racconto ogni riferimento a umiliazioni, oltraggi, offese rivolte a Gesù la cui fronte rimane sempre alta, fino alla fine. Ne esce fuori il ritratto di Gesù dal chiaro profilo regale, le cui caratteristiche principali sono la libertà e la consapevolezza. Gesù, proprio perché libero e consapevole, affronta la passione con dignità. Non è orgoglioso e sprezzante del pericolo, né tanto meno è talmente esaltato dal galvanizzarsi all’idea di diventare martire.

L’evangelista Giovanni non ha mancato di segnalare l’umano turbamento di Gesù davanti alla consapevolezza che era giunto il momento della resa dei conti. La paura, mettendoci in guardia da un pericolo che corriamo, ci permette di compiere le scelte opportune per evitarlo e salvarci. Fin quando non giunge la «sua ora» Gesù fugge o trova il modo di non cadere nelle trappole che gli vengono tese. C’è dunque un tempo nel quale bisogna fare un passo indietro, in cui è necessario riformulare i programmi, un tempo in cui aspettare. Gesù nei pericoli non si fa prendere dalla paura, ma la prende per mano con delicatezza, perché il vero pericolo, da cui viene la paura più drammatica, è quella di non piacere a Dio. Ci si può far prendere dalla paura e bloccarsi nel fare il bene e nel portare avanti la propria missione. La paura è alimentata dalle accuse ingiuste, dall’essere strumentalizzati, beffeggiati, osteggiati, irrisi, perseguitati. Di tutto questo non si fa cenno nel racconto della Passione in quanto tale ma è riportato in tutta la narrazione evangelica ad indicare il fatto che la passione attraversa tutta la vita di Gesù.

Quando giunge la sua ora Gesù è consapevole del fatto che è arrivato al vertice della missione per la quale è venuto nel mondo. Nell’ora finale Gesù guarda in faccia la morte. Davanti ad essa il timore è vinto dalla fiducia amorevole verso il Padre. La morte non è la fine di tutto, ma il fine di tutta la sua vita. Egli stesso impiega l’immagine del seme che deve cadere nella terra e morire in vista del fine per il quale esiste ed è stato seminato: portare frutto. Lasciarsi dominare dalla paura comporta la perdita di lucidità e capacità di ragionevolezza. Per cui istintivamente o ci si ritira o si aggredisce. La paura può portarci anche a mettere la testa nella sabbia, come gli struzzi, per non vedere e rifugiarci nelle utopie e staccarci dalla realtà. Gesù invece affronta a viso scoperto la morte, senza maschere per mimetizzarsi e conformarsi alla massa e senza protezioni per salvare le apparenze. Gesù non guarda altrove, ma attraverso la morte perché guarda avanti, verso il compimento della promessa del Padre e guarda in alto verso di Lui per non perdere il contatto visivo con Dio, unica fonte di speranza.

Quando vediamo avanzare i nemici, le forze delle tenebre, con lanterne, fiaccole e bastoni, ricordiamo le parole di Gesù: «se cercate me, lasciate andare loro». Egli è veramente il nostro re, perché per salvarci, attraversa da solo la passione e la morte, ma non per rimanere da solo, ma per farci entrare con sé a far parte del suo regno. Traducendo il testo greco in maniera diversa rispetto alla traduzione ufficiale, vediamo Gesù, non Pilato, sedere nel litostroto. È il vero re, anche se con una corona di spine sul capo e un mantello di porpora sulle spalle. A questo re dobbiamo guardare per lasciarci attirare dalla sua dolente e potente regalità. Egli non ha nulla a che fare con i potenti di questo mondo, pieni di titoli, onori, ricchezze, potere, ma spesso vuoti interiormente e talmente leggeri che una folata di vento della prima avversità li porta via. Gesù, inchiodato alla croce, è saldamente seduto sul suo trono di gloria. C’è una differenza tra i troni mondani e quello di Cristo: dagli scranni più alti delle gerarchie di potere facilmente si può cadere perché c’è sempre chi insidia per prenderne il posto. Dall’alto della croce non si cade ma si chiamano gli altri rialzandoli dalle loro cadute. Così Gesù, come il serpente issato da Mosè nel deserto, è innalzato affinché chiunque, morso dal serpente del peccato e alzando gli occhi verso di Lui, possa essere salvato.

Nella nostra passione non lasciamoci prendere dalla paura, ma guardiamo sempre avanti, certi che l’approdo della vita non è la morte ma la salvezza, la vita eterna. Quando ci sentiamo smarriti e confusi guardiamo in alto dove, come la vetta della montagna che emerge dalle nuvole, possiamo contemplare il volto del Crocifisso dalle cui labbra fioriscono parole di conforto e dal cui costato aperto sgorga, come da una sorgente zampillante, il dono dello Spirito Santo. Quando ci sentiamo soli perché distanti, diamoci appuntamento sotto la croce, nel grande abbraccio di Gesù, sotto la cui guida siamo ricondotti nell’originale unica famiglia. Quando ci assale il dubbio di essere inutili, sterili, inconcludenti, falliti apriamo il nostro spirito di figli ad accogliere devotamente e con tenerezza quella Madre che ci viene donata dall’alto. Chi più di Lei, stando ferma in piedi sotto la croce, ha avvertito il dolore lancinante della perdita del figlio? Ella ci insegna che anche nel travaglio più doloroso della prova si deve rimanere in piedi come le sentinelle nella notte, sorrette dalla speranza dell’arrivo annunciato del nuovo giorno. Nel buio del lutto e della perdita di ciò che ci sta a cuore impariamo da Lei a vedere in ciò che ci manca la presenza dell’essenziale, anche se in un’altra forma. Anche Maria è morta col Figlio sulla croce, anche per lei giunse l’ora. Sì, nel momento in cui Gesù ha reso lo Spirito Maria è morta come madre di suo figlio, ma, per il fatto di essere stata fecondata dalla sua parola dall’alto della croce, è nata come Madre di tutta la Sua discendenza, Madre della Chiesa.  Alzando gli occhi verso il Crocifisso, e lasciandoci accompagnare da Maria, sperimenteremo con loro la morte non come vuoto nel quale precipitare ma quale grembo in cui rinasciamo come figli di Dio.

MEDITATIO

DOV’È IL TUO DIO?

«Dov’è il tuo Dio?» (Sal 41, 4. 11); mentre l’uomo soffre, una domanda trafigge il suo cuore come una freccia dalla punta acuminata e mette in crisi la fede. Anche Gesù è stato perseguitato da questa domanda provocatoria. La sua risposta è il silenzio perché nella sua pazienza si mostra un Dio compassionevole che ai ragionamenti e alle arringhe di difesa o di accusa preferisce caricarsi delle nostre sofferenze, della nostra rabbia per le ingiustizie, della nostra tristezza e delle nostre paure. «Dalle sue piaghe siamo stati guariti» (Is 53,5). Le ferite del peccato infettano, quelle dell’amore sanano. Gesù si è lasciato infettare dalla morte perché fossimo guariti dal peccato.

Oratio

Signore Gesù, uomo della croce,

i tuoi occhi brillano di speranza

nella notte oscura della fede

messa in crisi dalle sofferenze

di cui non vediamo la fine

ma che in te trovano il loro senso.

Guarda i tuoi fratelli che,

spaventati e tristi

nell’ora della prova,

si chiudono in sé stessi

incapaci di sperare e chiedere aiuto.

Metti sulle nostre labbra parole

per pregare nell’ora del dolore

e in quella della solitudine

rafforza la volontà di farci prossimi

agli altri fratelli infermi e sofferenti.

Alimenta in noi la fede

affinché non indietreggiamo

davanti alle esigenze del vero amore

e donaci la speranza

per affidarci fiduciosi nelle mani del Padre

affinché possiamo essere docili e obbedienti alla sua volontà. Amen.