La fede è grande tanto quanto la speranza di salvezza riposta in Dio – XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

La fede è grande tanto quanto la speranza di salvezza riposta in Dio – XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

16 Agosto 2020 0 Di Pasquale Giordano

XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

Is 56,1.6-7   Sal 66   Rm 11,13-15.29-32   

+ Dal Vangelo secondo Matteo Mt 15,21-28

Donna, grande è la tua fede!

In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. 

Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». 

Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». 

Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

La fede è grande tanto quanto la speranza di salvezza riposta in Dio

Il vangelo di domenica scorsa ci ha consegnato in un’icona densa di contenuto il dramma della fede messa alla prova. I discepoli non riescono a fronteggiare il problema del vento contrario che sospinge la loro barca alla riva opposta a quella verso cui si stanno dirigendo. Nella difficoltà, vedendo Gesù camminare sulle acque, sono sconvolti dalla paura perché lo prendono per un fantasma. La parola di Gesù, che si fa riconoscere, non basta per rassicurarli. Pietro vuole una prova e chiede di poter camminare sulle acque. Ricevuto il permesso, egli inizia a farlo ma, preso ancora dalla pura del vento contrario, inizia ad affondare. L’apostolo ha la forza di gridare aiuto e Gesù lo afferra mettendolo in salvo e rimproverandogli la poca fede. Quando finalmente tutti sono nuovamente sulla barca gli apostoli si prostrano confessando che Gesù è il Figlio di Dio.

Anche la pagina del vangelo di questa domenica, che presenta la figura di una donna Cananea abitante del territorio straniero della fenicia in cui Gesù si era ritirato, ci offre spunti di riflessione sulla fede che è messa alla prova, questa volta però dal silenzio di Dio. Come i discepoli nella barca contrastata dal vento, anche lei è in grande difficoltà perché sua figlia è tormentata da un demonio. Similmente a Pietro, anche la Cananea grida verso Gesù pregandolo di avere pietà di lei. Ma, al contrario di quello che accade all’apostolo, Gesù non tende la mano ma oppone il silenzio. 

Gesù tira dritto per la sua strada seguito dai discepoli e dalla donna che gli grida dietro con insistenza. In questo clima di tensione s’inseriscono due dialoghi, il primo con i discepoli e il secondo con la donna, che infrangono finalmente il muro della incomunicabilità. Sia i discepoli che la donna si avvicinano a Gesù e lo supplicano invocando aiuto. I discepoli chiedono a Gesù di «mandar via» (lett.) la donna esaudendo la sua richiesta o di accondiscendere alla sua richiesta in modo da potersene liberare. Non sappiamo quali sentimenti albergano nel cuore dei discepoli sentendo le grida della donna. Certo è che essi non rimangono indifferenti. La indeterminatezza in cui ci lascia il racconto ci autorizza ad avanzare delle ipotesi partendo dalla nostra esperienza, quando ascoltiamo la preghiera o la richiesta di aiuto proveniente da persone che ci sono estranee. Tante sono le scene a cui assistiamo quotidianamente nelle quali donne, uomini, bambini e anziani gridano verso di noi chiedendo aiuto. Ci sentiamo quasi pressati ma anche interpellati oppure scomodati dal grido di aiuto che si eleva da più parti e soprattutto dai nostri confini. Sentiamo fastidio? Avvertiamo compassione? Alziamo le spalle invocando l’intervento delle autorità oppure, riconoscendo i nostri limiti, sollecitiamo l’aiuto misericordioso di Dio? In genere abbiamo difficoltà a prendere l’iniziativa e preferiamo fare appello ad istanze superiori perché è più comodo delegare e dire agli altri quello che dovrebbero fare piuttosto che domandarsi, dopo aver ascoltato, come intervenire in prima persona. Tuttavia, nelle parole dei discepoli è sottesa la domanda: perché non fai niente?

Replicando ai discepoli, Gesù parla delle pecore perdute della casa d’Israele e, successivamente, rivolgendo finalmente la parola alla donna, accenna ai figli, ai cagnolini e al pane dei figli. Il dire di Gesù è allusivo e il suo linguaggio più che dare risposte offre spunti per delle domande da rivolgere a sé stessi. I discepoli si riconoscono gregge di quel pastore che è venuto a radunare le pecore disperse? Anche noi sperimentiamo lo smarrimento davanti alle prove della vita. Le contrarietà ci destabilizzano e preferiamo allontanarci da Dio e chiuderci in una sorta d’isolamento volontario piuttosto che chiedere aiuto. Le crisi mettono in luce le fondamenta sulle quali basiamo le relazioni di fiducia. Quanto più siamo autoreferenziali tanto più le delusioni e i traumi, piccoli o grandi della vita, scavano dentro di noi fossati e anfratti nei quali ci rifugiamo. In questo deserto di solitudine, insoddisfazione e tristezza, vaghiamo alla ricerca di surrogati di felicità, esploriamo sentieri per trovare individui accondiscendenti che assecondino le nostre utopie, piuttosto che persone alle quali chiedere umilmente aiuto e con le quali farsi compagni di strada per ritornare a casa. Il nostro cammino di fede è guidato dalla voce del Pastore? Siamo più propensi a fare branco attorno a falsi pastori che ingenerano paura e diffidenze o a formare insieme con gli altri fratelli e sorelle nella fede l’unico gregge di Cristo?

Mentre riflettiamo ci raggiunge la donna che si prostra davanti a Gesù invocando il suo aiuto. Lei, essendo straniera, non è membro del popolo d’Israele al quale Dio aveva promesso il Messia. Finalmente Gesù rivolge la parola alla donna. Anche a lei parla della casa con immagini che evocano una famiglia seduta attorno alla mensa per condividere il pane. La nostra memoria va al luogo nel quale Gesù, dopo aver fatto sedere la folla, prende i pani e i pesci, li benedice e li dà ai discepoli perché tutti possano mangiare. Il pane rimasto non viene gettato, ma raccolto. Questa è la casa di preghiera per tutti i popoli, di cui parla Isaia nella prima lettura, e verso la quale Dio stesso, come il buon pastore, conduce e raduna. Nella casa di Dio, non ci sono solo i figli, quelli che seguono Gesù, si nutrono della sua parola e che comunque si smarriscono, ma ci sono anche i cagnolini che attendono le briciole che cadono dalla mano dei loro padroni. C’è un diverso grado di appartenenza a Dio e alla Chiesa, ma tutti amati nello stesso modo. Infatti, sembra replicare la Cananea, la mia sofferenza non è uguale a quella delle altre donne Israelite, non sono forse madre come lo è una donna del popolo eletto? Le parole della donna straniera riecheggiano nella preghiera che eleviamo dopo il Padre nostro quando diciamo: «Non guardare ai nostri peccati ma alla fede della tua Chiesa». La fede è grande quanto il desiderio e la speranza di essere salvati da Dio. Pietro nella poca fede dubita e affonda, la Cananea con la sua grande fede spera, perché, al contrario di Pietro, ella non è concentrata e centrata su di sé, ma è tutta protesa verso Dio come un cagnolino in attesa di ricevere le briciole dal suo padrone. 

La donna, esempio per i discepoli di umiltà e coraggio, non si arrende davanti al silenzio ma sceglie di perseverare nella preghiera superando ogni ostacolo. La consapevolezza della sua piccolezza e indegnità non si trasforma in complesso d’inferiorità o di colpa disperato. La fede umile di questa donna straniera ci invita a riconoscere che la bontà misericordiosa di Dio non è un privilegio riservato a pochi eletti, ma è una promessa universale per la cui realizzazione i «figli» sono chiamati ad essere missionari facilitatori. 

Noi, discepoli di Cristo, davanti al grido dei poveri, che non si differenziano per colore della pelle, fede che professano, censo, convincimenti politici, non possiamo limitarci ad essere portavoce o lamentatori seriali, delegando poi ad altri il lavoro. Partecipando alla mensa eucaristica, nella quale riceviamo il pane dei figli, non dobbiamo ritenerci beati perché siamo sazi e non ci manca nulla, ma abbassiamo il nostro sguardo anche verso i «cagnolini», cioè verso coloro che vivono una condizione di marginalità, a causa loro o per colpa altrui, ma che sono abitati dall’intima speranza che qualcuno accorgendosi di loro, dia da mangiare. 

Troppo presi dai nostri bisogni non ci accorgiamo che essi appartengono anche a chi è nascosto agli occhi degli uomini, ma non a quelli di Dio. Da qui si rinnova l’invito missionario: «Date loro voi stessi da mangiare». La fede diventa grande non solo se è sostenuta dalla speranza in Dio ma anche se è alimentata dalla carità fraterna. Il silenzio di Dio è lo spazio nel quale Egli ci risponde attraverso la comunione fraterna. 

Auguro a tutti una serena domenica e vi benedico di cuore!