Il “fiuto” della fede – XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio Divina
Il “fiuto” della fede – XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio Divina
Ger 31,7-9 Sal 125 Eb 5,1-6
O Dio, Padre buono,
che nel tuo Figlio unigenito
ci hai dato il sacerdote compassionevole
verso i poveri e gli afflitti,
ascolta il grido della nostra preghiera
e fa’ che tutti gli uomini vedano in lui
il dono della tua misericordia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Geremìa Ger 31,7-9
Riporterò tra le consolazioni il cieco e lo zoppo.
Così dice il Signore:
«Innalzate canti di gioia per Giacobbe,
esultate per la prima delle nazioni,
fate udire la vostra lode e dite:
“Il Signore ha salvato il suo popolo,
il resto d’Israele”.
Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione
e li raduno dalle estremità della terra;
fra loro sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente:
ritorneranno qui in gran folla.
Erano partiti nel pianto,
io li riporterò tra le consolazioni;
li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua
per una strada dritta in cui non inciamperanno,
perché io sono un padre per Israele,
Èfraim è il mio primogenito».
Il dinamismo della speranza
Questo è uno dei capitoli più importanti del libro degli oracoli del profeta Geremia e rappresenta il culmine del messaggio della speranza. I destinatari sono coloro i quali s’identificano con Israele perché si pongono tra coloro che attendono la salvezza del Signore e accolgono con fiducia il messaggio del profeta. Sono coloro che nella notte del dolore, sradicati dalla loro terra e spogliati di tutto, avvolti nelle vesti del lutto, non si sono lasciati vincere dalla disperazione, decretando la morte della relazione con Dio, ma hanno lottato contro la paura per custodire la fede e tenere accesa in qualche modo la speranza, attraverso la memoria della provvidenza divina, sperimentata dai loro padri nel cammino dell’esodo, e l’incessante preghiera di lamentazione e di intercessione. Chi prega ha gli stessi dubbi e malumori degli altri con i quali condivide la sorte infelice, ma reagisce tenendo viva la relazione con Dio, silenzioso e apparentemente inerte, gridando verso di lui il suo dolore. Grazie alla fede, che si traduce in preghiera, si può sopravvivere ai drammi della vita che scuotono le fondamenta e mettono in discussione le verità date per certe nel tempo della prosperità. Geremia, che condivide il dramma dell’uomo sofferente, si fa orecchio di Dio che ascolta e si commuove, portavoce del grido dell’umanità ferita, bocca del Signore che risponde all’appello dei suoi figli. Dio, infatti, ricorda a Israele che il suo amore è gratuito e incondizionato, perciò eterno e inclusivo. L’amore di Dio, proprio perché non è possessivo, ma oblativo e generativo, non tollera di essere circoscritto dentro dei confini geografici o culturali oppure sociologici e politici, ma per sua natura si espande per allargare il suo raggio di azione e ampliare gli orizzonti fino all’infinito, fino a lambire le periferie esistenziali. Il cieco, lo zoppo, la donna partoriente sono i rappresentanti di coloro che per la Legge sono impuri, incapaci di essere alla presenza di Dio. Tuttavia, il messaggio di speranza consiste nell’annunciare la venuta di Dio e l’intervento salvifico che inaugura il nuovo esodo i cui protagonisti sono gli esclusi e gli emarginati. «Quel tempo» è il tempo finale perché è quello del compimento del progetto di Dio. Esso consiste nella comunione universale, nella pace che è armonia delle differenze e mortificazione delle diffidenze. La speranza è la caparra della gioia che, come luce che viene dall’eternità illumina nel presente le zone d’ombra della morte, passaggi necessari per gustare definitivamente e in pienezza la pace. La luce della speranza fa del deserto, luogo metaforico e teologico in cui la miseria interiore ed esteriore dell’uomo s’incontra con la misericordia di Dio, la terra di mezzo oltre la quale c’è la riva della salvezza e della comunione. Dio si è fatto deserto per aprire la via della salvezza ed è necessario per l’uomo essere deserto perché Dio possa giungere attraverso le ferite al suo cuore.
L’amore di Dio, come luce che «appare da lontano», da una parte offre un criterio di valutazione del peccato e della distanza da Dio, dall’altra la sorgente di questa luce non è distante, ma vicina perché Dio è “il prossimo”, colmando ogni distanza e abbattendo ogni ostacolo. L’amore di Dio, propria di un padre che benedice il primogenito, è la sorgente della speranza perché fa della distanza, dovuta al peccato, il tempo della salvezza, tempo e spazio del pellegrinaggio verso la Gerusalemme del Cielo e la vigna del paradiso. La speranza non si concilia con la passività che è invece propria della rassegnazione e del fatalismo, ma attiva un dinamismo di corresponsabilità per cui si riprende a costruire e piantare animati dal desiderio di abitare la casa che si edifica e gustare i frutti del proprio impegno.
Salmo responsoriale Sal 125
Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.
Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.
Dalla lettera agli Ebrei Eb 5,1-6
Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek.
Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.
Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo.
Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo:
«Tu sei sacerdote per sempre,
secondo l’ordine di Melchìsedek».
Figliolanza e fraternità, obbedienza e solidarità
L’autore della Lettera agli Ebrei riconosce che la messianicità di Gesù consiste nel suo sacerdozio del quale sottolinea prima la solidarietà con gli uomini e poi l’obbedienza a Dio. La solidarietà e l’obbedienza sono le due facce dell’unico sacerdozio di Cristo. Viene instaurato un parallelismo tra il sommo sacerdozio ebraico e il pontificato di Gesù. Il Sommo Sacerdote ebraico aveva fondamentalmente la funzione di intercedere per i peccatori presso Dio al fine di ottenere il perdono dei peccati. Questo avveniva mediante dei sacrifici che il sommo sacerdote offriva per i peccati suoi e di tutto il popolo. La solidarietà del Sommo Sacerdote era basata sul fatto che era uomo e, dunque, peccatore. Il perdono lo chiedeva per sé e per i suoi fratelli. Anche Gesù è nostro fratello perché partecipa della debolezza umana e soprattutto della sofferenza subita ingiustamente.
Nessuno può auto proclamarsi sacerdote, ma questo ministero si esercita in virtù della chiamata di Dio, come era stato stabilito sin da Aronne. L’autorità del Sommo Sacerdote non lo colloca al di sopra degli altri ma a loro servizio. Il sacerdozio, quale servizio agli altri, è esercizio di fraternità. Come non ci si può autoproclamare Sommo Sacerdote, così non si scelgono i fratelli ma si accolgono come un dono da custodire nella stessa maniera con la quale si riceve l’autorità e la si esercita. Ogni autorità, che sia regale o sacerdotale, viene da Dio perché essa sia esercitata a vantaggio di tutti i fratelli. Gesù riceve la pienezza dell’autorità perché nella Pasqua di morte e di risurrezione ottiene la corona regale della vittoria sul peccato e sulla morte e l’investitura sacerdotale. Sulla croce Gesù non offre sacrifici ma sé stesso con preghiere e suppliche, tra grida e lacrime. Il Cristo non ha scelto di soffrire ma ha celebrato il suo sacrifico unendosi totalmente agli uomini peccatori e caricandosi anche del dolore innocente. Dall’altra parte per la sua piena obbedienza a Dio è stato risuscitato portando la liberazione a tutti gli uomini dal peccato e dalla morte.
La vicenda pasquale di Gesù, letta nell’ottica della fede, ci aiuta a comprendere che essa ci aiuta a crescere nella duplice direzione della maturità umana: essere figlio e fratello. L’ obbedienza a Dio, ovvero l’adesione alla Sua volontà, fatta con libertà e fiducia, s’intreccia con la solidarietà fraterna che può giungere a subire il martirio da innocente. Chi si affida a Dio usa gli strumenti della mitezza per lottare contro il male, il primo dei quali è la preghiera. Essa non è una formula magica segreta elaborata per perseguire fini personali. Si tratta invece del mondo con cui vivere l’intimità filiale col Padre e quella fraterna nei gesti di una solidarietà e compassione.
+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 10,46-52
Rabbunì, che io veda di nuovo!
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
LECTIO
Il contesto
La pericope liturgica chiude l’arco narrativo iniziato col primo annuncio della passione (8,31) che ha inaugurato il viaggio di Gesù verso Gerusalemme. All’imperativo «vai dietro a me» rivolto a Pietro (8,33), a cui segue l’insegnamento destinato alla folla circa la sequela e la salvezza (8,34-38), fa riscontro la vicenda di Bartimeo e la sua sequela (8,52).
Dando uno sguardo più ampio alla narrazione evangelica notiamo che due sono i racconti di guarigione dalla cecità che fungono da cornice sezione centrale della trama. Il primo racconto di guarigione di un cieco è localizzato a Betsaida (8,22), villaggio sulle sponde settentrionali del lago di Tiberiadede, a cui approda la barca con Gesù con i Dodici. Nella traversata, dopo la seconda moltiplicazione dei pani, Gesù ascolta la loro lamentela sul fatto che non avevano pani, nonostante che di quelli avanzati ne avessero raccolto ben sette ceste, e stigmatizza la loro poca fede dicendo: «Avete occhi e non vedete, orecchi e non udite» (8,18). L’uomo affetto dalla cecità è condotto da Gesù da una comunità che invoca il suo aiuto e che chiede esplicitamente di toccarlo. La guarigione avviene in due momenti successivi ad indicare una sorta di gradualità; alla domanda se vedesse qualcosa, l’uomo risponde di vedere, ma in maniera confusa, ed è solamente dopo un secondo intervento di Gesù che il cieco recupera pienamente la vista riuscendo a distinguere le cose da lontano. L’uomo guarito è rimandato a casa la quale doveva essere fuori del villaggio, dove pure si era svolto l’incontro terapeutico (8,22-26). L’evangelista Marco collega il tema dell’incomprensione dei discepoli all’immagine della cecità. La distanza tra il Maestro e gli apostoli si allarga di più man mano che ci si avvicina a Gerusalemme e più chiaramente Gesù parla della sua passione, morte e risurrezione. Infatti, dopo ognuno dei tre annunci della passione segue la reazione dei Dodici che rivela la loro «cecità», ovvero la poca fede che impedisce loro di seguire il Maestro con obbedienza. Il loro atteggiamento oppositivo a Gesù si riflette anche nelle relazioni conflittuali con gli altri e nella comunità. L’incomprensione, che genera turbamento e paura, non è tanto l’incapacità di cogliere la verità degli eventi e di Gesù, quanto, invece, è la durezza del cuore che resiste all’azione della grazia e impedisce la conversione e il credere nel Vangelo, ovvero, la conformazione a Cristo.
Il tema del cammino verso Gerusalemme e della sequela sono i due binari sui quali scorre la trama narrativa che trova nel racconto della guarigione di Bartimeo uno snodo importante perché riassume alcuni tratti presenti nelle scene precedenti, in particolare quelle nelle quali i protagonisti insieme a Gesù sono l’uomo ricco (vv. 17-22) e i due fratelli figli di Zebedeo (vv.35-40). La supplica accomuna il cieco di Gerico, l’uomo ricco (v.17) e i due apostoli (vv.35.37); in particolare, è uguale la reazione di Gesù ascoltando il grido di Bartimeo e la richiesta dei fratelli Giacomo e Giovanni: «cosa volete/vuoi faccia per voi/te» (vv. 36.51). Non sfugge anche il fatto che sia il cieco, sia i fratelli sono menzionati per nome con l’aggiunta del patronimico. I figli di Zebedeo erano uomini con una certa agiatezza economica, se potevano permettersi anche dei servi, e l’uomo, che si avvicina a quello che lui chiama Maestro buono per avere la ricetta della salvezza, aveva molte proprietà. Gli apostoli hanno lasciato tutto per seguirlo mentre il ricco rinuncia alla sequela per conservare tutti i suoi beni. Bartimeo è invece un povero mendicante, uno di quelli a quali il ricco avrebbe dovuto offrire il ricavato della vendita dei suoi beni. La sequela di Cristo inizia col prendere le distanze dalle sicurezze economiche e continua con la cura amorevole verso i piccoli. Gli apostoli sono ripresi da Gesù per la loro pretesa di esclusività che non si instaura solo nel rapporto con quelli di fuori ma con gli stessi compagni di cammino. L’apostolato è strettamente legato alla sequela intesa come servizio, ovvero come vita donata per connettersi con Dio e favorire il contatto e la comunione di tutti con lui. Anche la storia di Bartimeo mette in evidenza il fatto che la pretesa dei discepoli diventa barriera che impedisce l’incontro.
Il testo
La pericope liturgica è composta di due scene: nella prima (vv. 46-49a) il cieco grida verso Gesù mendicando pietà, nella seconda (vv. 49b-52), rispondendo prontamente alla sua chiamata, si avvicina e chiede di «vedere di nuovo». Il brano evangelico mette in evidenza il doppio passaggio: dalla cecità al recupero della vista e dal sedere lungo la strada e seguire Gesù lungo la via. Formalmente è un racconto di guarigione che si intreccia anche con il genere letterario della vocazione e della conversione. Il vertice del racconto e la sua chiave di lettura è la parola di Gesù a Bartimeo: «Và, la tua fede ti ha salvato» (v.52).
La prima scena presenta i due soggetti del racconto. Da una parte Gesù è in cammino insieme ai discepoli e alla folla e dall’altra il cieco Bartimeo che invece è seduto lungo la strada a mendicare. C’è, quindi, un primo contrasto tra il movimento della comunità che cammina con Gesù e il mendicante che invece permane nella sua condizione statica e di dipendenza. Tuttavia, il narratore chiama per nome il povero cieco per invitare il lettore a cogliere in quella persona indigente la dignità di un uomo che rivendica l’appartenenza alla famiglia di suo padre. Chiamare per nome una persona significa riconoscerne il valore, a prescindere dalla sua condizione economica e sociale. Essendo cieco, era considerato anche impuro perché non poteva distinguere e cose sante da quelle profane. Per questo non poteva accedere alla Città santa. Egli mendica sulla via santa che porta a Gerusalemme rimanendo ai margini ed escluso dal cammino di purificazione, conversione e santificazione. Il narratore al v. 47 con un gioco di prospettiva permette al lettore di assumere quella del figlio di Timeo. I suoi occhi non vedono ma le sue orecchie sentono bene e il suo cuore sa discernere. La gente parla di Gesù, il Nazareno, ovvero di un Galileo, anche lui ebreo marginale. La provenienza geografica colloca lo stesso Gesù in una posizione arginale sia dal punto di vista religioso che culturale. Anche se larvatamente, «Nazareno» assume un significato dispregiativo mettendo in evidenza le sue umili origini. Cosa potrebbe interessare ad un povero cieco emarginato di un uomo normale come tutti gli altri? Forse ha sentito parlare anche delle sue opere e del fatto che ha dei seguaci, ma chi lo ha informato di lui e della sua presenza non è andato oltre i dati anagrafici. Tuttavia, la scena si anima perché sul vociare della gente che affolla la via si erge con forza il grido di Bartimeo. La notizia della vicinanza di Gesù fa scattare in lui qualcosa che lo porta ad alzare la voce invocando il suo nome per chiedere aiuto. Sebbene ancora seduto e nascosto dalla folla che lo sovrasta, la notizia accende un lui una speranza e con essa il coraggio di sfidare il pregiudizio della gente e la sua rassegnazione; non si ferma neanche davanti al rimprovero della gente. «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me»: si tratta di una vera e propria preghiera e non una semplice richiesta di elemosina. Bertimeo si presenta a Gesù quasi ricordandogli quello che lui aveva detto al tale che gli chiedeva cosa fare per ereditare la vita eterna. Lui è quel povero a cui dare i proventi della vendita di tutti i propri averi. Gesù, sulla croce, non offre qualcosa che ha ma l’unico suo bene, la vita; lo fa per salvare e riscattare i poveri peccatori dalla condizione di schiavitù. Lui stesso, infatti, aveva detto: «Sono venuto … per servire e dare la vita in riscatto dei molti» (10,45). La lettera della legge e della tradizione degli uomini induce a leggere la propria condizione fisica come condanna all’essere esclusi dalla salvezza e dai suoi mezzi; il cuore di quell’uomo, nel quale misteriosamente è stata seminata la fede, riconosce qualcosa che la legge e le tradizioni umane non possono rivelare. Bartimeo non si aspetta da Gesù un rimedio materiale ma la giustizia di cui il re, Figlio di Davide, è mediatore. Non può correre verso Gesù e, allora, inventa un modo ancora più efficace per essere alla sua presenza. Il grido, come quello di Gesù sulla croce, intende essere un ponte lanciato verso una sponda considerata irraggiungibile con le sole proprie forze. Bartimeo sperimenta la medesima umiliazione subita da Gesù quando dai suoi familiari era considerato un pazzo e dalle autorità era tacciato come un indemoniato. Tra la folla ci sono anche i discepoli di Gesù che avevano assistito agli esorcismi nei quali Gesù aveva intimato il silenzio ai demoni. Anche Bartimeo viene messo a tacere perché viene visto come un posseduto da uno spirito impuro. Eppure, contrariamente agli indemoniati, egli non si ribella e non millanta una conoscenza di Gesù, ma lo invoca chiedendo il perdono. I diavoli non pregano ma imprecano. Interessante notare il gioco di sguardi e dei punti di vista e il contrasto tra come è visto Gesù dalla gente e dai suoi discepoli e lo sguardo della fede del cuore di Bartimeo. Dal modo con il quale si vede Gesù dipende quello col quale si vede sé stesso e gli altri. La fede o la incredulità determina la speranza e il rispetto degli altri.
La persistenza nell’invocazione e la costanza nella speranza di essere ascoltati sortiscono l’effetto desiderato. Gesù ascolta la preghiera e si ferma comandando di chiamarlo. Non si dirige verso Bartimeo e non si rivolge direttamente a lui ma coinvolge nella relazione coloro che prima tentavano di ostacolare l’incontro rimproverandolo. «Chiamatelo» è il comando che esprime la volontà di Gesù di entrare in contatto con chi lo sta chiamando. Il verbo «chiamare» è proprio quello della vocazione che è usato dall’evangelista, avendo come soggetto Gesù, in 1,20 quando i primi quattro discepoli lasciano tutto per seguirlo, e in 3,13 dove si narra della elezione e della costituzione del gruppo dei Dodici. La chiamata dei discepoli si declina nella partecipazione alla vita di Gesù finalizzata alla condivisione del ministero. Si deve notare che nell’ora drammatica della crocifissione anche Gesù gridò: «Eloì, Eloì ..». La preghiera di supplica rivolta a Dio (chiamato «mio Dio») viene confusa come la chiamata di Elìa per essere salvato. Dunque, quella di Bartimeo è una preghiera di supplica, mentre la chiamata di Gesù è la risposta. Quelli che sono con Gesù si fermano insieme a lui e si sentono interpellati dal comando che ricevono. Essi diventano angeli messaggeri, portavoce della chiamata di Gesù che lo invita ad andare verso di lui. Il Vangelo è chiamata di Dio che i messaggeri spiegano meglio: «Coraggio, alzati, ti chiama». Gli evangelizzatori non sono portatori di una loro verità ma della parola di Gesù, che come quella del Padre, è una parola di risurrezione: «Alzati!». «Coraggio!» la chiamata è preceduta da una esortazione che rimanda alle espressioni profetiche nelle quali i messaggeri di Dio invitavano il popolo appesantito dalle prove a non scoraggiarsi e a non abbattersi. L’espressione intende anche ricordare la dignità di uomo, di cui il coraggio è l’elemento che la contraddistingue.
Il processo di cambiamento e di trasformazione parte dalla parola di Gesù che è diretta a tutti. Infatti, chiunque ascolta la parola di Gesù si sente interpellato e si adopera a metterla in pratica: questo è il servizio! È la comunità che si fa mediatrice della Parola mettendosi a servizio della sua diffusione.
Bartimeo accoglie subito l’invito, si libera del mantello, salta in piedi e va verso Gesù presumibilmente accompagnato da qualcuno. La sequenza dei verbi colloca nella parte centrale il gesto dell’alzarsi da terra che però è preceduto da quello di gettare via il mantello ed è seguito dal cammino verso Gesù. Quello del mantello è un particolare solo di Marco e assume un valore importante nel racconto. Infatti, per il povero il mantello rappresenta l’unico bene posseduto. Al pari di Pietro e degli altri discepoli chiamati da Gesù, anche Bartimeo risponde alla chiamata lasciando tutto. La Legge garantiva al povero il diritto di possedere almeno il mantello per coprirsi. Era un diritto inalienabile (Es 22, 25-26; Dt 24,10-13.17). L’abbandono del mantello è una scelta di Bartimeo che non sacrifica qualcosa che gli appartiene in cambio dell’ottenimento di un favore, ma si spoglia di ciò che, sebbene abbia per lui un valore, ritiene un intralcio per il raggiungimento del suo obbiettivo: rispondere alla chiamata di Gesù incontrarlo. La fede incipiente che alberga nel cuore del povero e che si esprime attraverso il grido di supplica, diventa libertà interiore che ispira una scelta coraggiosa: lasciare il sicuro che è nelle proprie mani per andare verso l’invisibile e affidarsi alle sue mani.
Quando il cieco è finalmente alla presenza di Gesù inizia un dialogo tra i due introdotto dalla domanda del Nazareno: «cosa vuoi che io faccia per te?». Con lo stesso interrogativo Gesù aveva replicato ai due fratelli, Giacomo e Giovanni, che gli avevano detto: «Noi volgiamo che tu faccia per noi quanto ti chiederemo». Sebbene uguale sia la reazione di Gesù ben diverso è l’approccio iniziale. Infatti, Bartimeo invoca l’aiuto di Gesù mentre i due fratelli chiedono un favore personale basato sulla confidenza che si era venuta a creare. Per i due apostoli Gesù è il messia atteso che avrebbe conquistato il potere, mentre il mendicante che chiedeva l’elemosina alla gente ora invoca la guarigione perché possa recuperare la vista. Gesù è chiamato Rabbunì per indicare il fatto che Bartimeo lo riconosce come maestro. Non si aspetta da lui una promessa ma una parola che lo guarisca e gli ridia vita. Gesù, infatti, non compie alcun gesto ma rivela che è la fede del cieco a salvarlo. La parola rivelativa di Gesù diventa il momento nel quale Bartimeo recupera la vista e con essa la decisione di seguirlo lungo la strada. Bartimeo richiama anche la figura del ricco che era andato da Gesù per chiedergli consigli su cosa fare per ereditare la vita eterna. Non volendo rinunciare ai suoi beni aveva rifiutato anche l’invito a seguirlo. Bartimeo invece, accogliendo la chiamata di Gesù giunta a lui mediante la folla, ha lasciato tutto ciò che possedeva per essere libero di incontrare Gesù. Pur essendo cieco, i suoi passi sono guidati dalla luce della Parola e sostenuti dalla forza della speranza. La parola di Gesù rivela che il passaggio dall’essere cieco e mendicante lungo la strada all’essere vedente e suo seguace sulla strada verso Gerusalemme è propriamente il cammino della fede che non finisce con l’essere stati guariti ma che mira alla pienezza della fede, ovvero alla piena conformazione a Cristo.
Bartimeo, come anche la vedova al tempio (12, 41-44), è un insegnamento per i cristiani di ogni epoca i quali, alla luce della Pasqua di Gesù e della testimonianza degli apostoli, riconoscono in quelle figure l’anticipazione dell’esperienza pasquale vissuta da Gesù e il modello di discepolo da incarnare.
MEDITATIO
Il “fiuto” della fede
La pagina del vangelo di questa domenica presenta l’incontro tra Gesù e il cieco Bartimeo che da mendicante seduto lungo la strada diventa suo discepolo perché, riacquistando la vista, lo segue sulla via che punta diretta verso Gerusalemme. Alla luce della prima lettura, nella quale il Profeta Geremia annuncia l’intervento salvifico di Dio che riconduce nella loro terra «il cieco e lo zoppo», Bartimeo è uno dei destinatari della promessa di Dio perché incarna tutti gli emarginati della comunità, i perdenti dei giochi di potere, il prodotto di scarto della cultura dell’usa e getta. La via sulla quale il Signore viene a radunare i dispersi e i disperati è il cammino del nuovo esodo che libera dalla schiavitù del peccato, che rende l’uomo dipendente dalle cose e lo condanna alla solitudine, per restituirgli la dignità per la quale diventa una creatura nuova, capace di compassione verso i fratelli e, insieme con essi, forma e costituisce la comunità dei salvati, il nuovo Popolo di Dio.
Bartimeo rimane colpito dal vociare della folla dei discepoli che accompagna Gesù e in lui finalmente si risveglia la speranza sopita. Non ha sentito direttamente la voce del Maestro non lo ha conosciuto di persona, eppure, gli basta sapere che gli è in qualche modo vicino per rivolgersi a lui nella preghiera gridando con tutta la voce che ha in gola. La preghiera sembra uscirgli spontaneamente dal cuore perché in realtà lascia parlare lo Spirito Santo. Quella del cieco è una supplica molto diversa nella forma e nel contenuto di quella del tale che chiedeva consigli su come ereditare la vita eterna e dei due fratelli apostoli che esigevano l’assicurazione dei posti d’onore nella tribuna della gloria. Il figlio di Timeo si rivolge al «Figlio di Davide», il suddito grida verso (non contro) il suo Re e fratello. Non chiede l’elemosina ma invoca la misericordia, non chiede di essere saziato di beni ma il bene che sana il cuore. La preghiera di supplica è la mano tesa dell’uomo a Dio che viene a visitare il suo popolo; è l’apertura del cuore verso il Signore che viene incontro a noi per chiamarci e insieme camminare sulla via della vita. Bartimeo si sente interpellato dall’eco della Parola di Gesù e dal profumo della sua presenza. Privo della vista, il cieco sembra avere “il senso della fede” che gli permette di “vedere” quello che altri si rifiutano di riconoscere. La sua è la fede dei semplici è un fiuto infallibile molto diverso da quello di chi cerca i suoi interessi ma non la salvezza.
La seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, afferma che nessuno può attribuirsi da solo l’onore di essere sommo sacerdote, ma si è chiamati da Dio. Gesù, ascoltando la supplica di Bartimeo lo chiama. La chiamata non è diretta ma mediata da coloro le cui parole hanno riacceso la speranza nel cieco mendicante, che sono stati anche di ostacolo all’incontro con Gesù, ma che poi diventano profeti della sua Parola che chiama a sé. La vocazione è un invito ad avere coraggio e a rialzarsi (verbo della risurrezione). Ogni vocazione è anche una provocazione che richiede delle scelte precise e anche delle rinunce. Non è Gesù che va verso il cieco, ma è lui che è chiamato a mettersi in cammino lasciando il posto in cui si trova per seguire la voce di chi lo chiama all’incontro. Bartimeo fa anche di più perché lascia il mantello, l’unico suo bene, per essere totalmente libero di seguire la sua chiamata. Il cieco, che tendenzialmente cerca ogni punto di appoggio, si fida solamente della Parola di Gesù e da essa si fa guidare per giungere alla sua presenza. L’incontro è un dialogo che continua la preghiera iniziata con un grido di invocazione e supplica per avere misericordia e che giunge alla richiesta della guarigione. Bartimeo chiede il dono di una vista “nuova”, capace di uno sguardo rinnovato. Vedere di nuovo non significa solamente riacquistare la vista e ritornare come prima, ma vuol dire avere la capacità di vedere, e dunque, discernere con gli stessi occhi di Dio. Occhi nuovi sono quelli che non cercano la colpa negli altri per accusarli, non sognano una gloria illusoria, non sono altezzosi e rivelatori di un cuore superbo. Bartimeo chiede occhi, come quelli di Dio, che sanno cogliere nelle fragilità e nella povertà dei poveri il motivo per cui andare loro incontro e farsi vicino con amorevolezza e tenerezza. Questa preghiera fatta con fede è efficace perché Dio condivide con noi il suo sguardo d’amore e di compassione, di speranza e di consolazione. Bartimeo con gli occhi nuovi vede la sua chiamata, la vocazione e la strada della sua vita. Per percorrerla segue Gesù. Dove lo condurrà? Ad essere sacerdote per sempre, non per offrire sacrifici per i suoi peccati, ma donare la sua stessa vita per amore. La via della fede è quella sulla quale incontriamo il Signore, da lui ci lasciamo incontrare, guarire e guidare per ricevere il dono più grande che possiamo sperare: essere sacerdoti tra i nostri fratelli e per i nostri fratelli.
ORATIO
Signore Gesù,
che attraversi le strade delle nostre periferie esistenziali
per chiamare tutti a seguirti sulla via della vera libertà,
fa che, ascoltando l’annuncio dei tuoi messaggeri,
si risvegli la speranza di riscatto e di vita.
Tu, che ascolti la preghiera degli umili e degli ultimi,
insegnaci a non rimanere indifferenti o infastiditi
dal grido d’aiuto dei poveri.
Ci chiami ad essere eco della tua Parola
e portavoce del grido di chi non è ascoltato da nessuno
o è ridotto al silenzio dall’arroganza
di quelli che credono di essere i migliori e più meritevoli.
Donaci la fede di non arrenderci
allo scoraggiamento della colpevolizzazione
e di non cedere alla vergogna
del giudizio di condanna per i nostri peccati,
ma di assecondare il “fiuto” della speranza
e di seguire il richiamo della misericordia.
Guarisci il nostro cuore con la grazia della consolazione
e togli il velo della tristezza
che ci blocca nella prigione del pregiudizio.
Il tuo Spirito mi guidi nel discernimento della tua volontà
perché possa vedere chiaramente a quale servizio d’amore
mi stai chiamando e come vivere il mio sacerdozio
insieme ai miei fratelli e per il bene della Chiesa. Amen.